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I castelli

FALCONARA

Presso l'archivio della chiesa di S. Giovanni Battista di Ancona è conservato un documento che riporta la denominazione di una località che potrebbe coincidere con l'odierna Falconara Alta, il nucleo originario di Falconara. Si tratta del cosiddetto Privilegio Magno, rilasciato dal papa Innocenzo IV nel 1252 ai monaci del monastero di S. Giovanni "in Peneclaria", in cui si nomina un fundus falconarie. Tale documento, che conferma ai monaci il possesso di alcuni beni, richiama due precedenti pergamene del 1051 e del 1188.

Nelle Rationes Decimarum degli anni 1290-1292 sono riportati alcuni pagamenti di decime effettuati ad una chiesa di S. Marie Montis Falconarii, che può essere identificata con l'odierna chiesa di S. Maria delle Grazie.

Ma il momento fondamentale, e che diede origine in qualche maniera al centro abitato di Falconara, è la costruzione del castello. Sull'epoca di edificazione si possono fare solo delle ipotesi: tuttavia alcuni documenti successivi fanno ritenere, con fondamento, che anche a Falconara, attorno all'anno Mille, esisteva una piccola comunità rurale soggetta ad un feudatario ed organizzata secondo gli schemi dell'economia curtense.

È ormai d'uso accettare la tradizione, accolta da quasi tutti gli storici anconitani, secondo cui la costruzione del castello fu opera dei conti Cortesi, discendenti di un condottiero germanico giunto in Italia con Belisario nel secolo VI, al tempo delle guerre tra Bizantini e Goti. I Cortesi entrarono in possesso di terre nei dintorni di Ancona dove edificarono, in tempi successivi, i castelli di Falconara, Varano e Sirolo. Il loro stemma era un falcone coronato con le ali aperte dal mezzo in su e, dal mezzo in giù, con le gambe torte all'indietro.

Tale tradizione si rifà alla storia redatta da Pietro Graziani, vissuto sul finire del Quattrocento e marito di Diana Cortesi, discendente della nobile famiglia. Il documento è conservato, in copia redatta nella seconda metà del Cinquecento dal cancelliere Francesco Maria Beldoni, presso l'Archivio storico comunale di Ancona.

Ma già il Peruzzi, nel secolo scorso, ha messo in dubbio la narrazione del Graziani per la presenza di alcuni elementi leggendari ed inconciliabili con le reali vicende storiche del tempo. Occorre poi dire che non erano infrequenti, nei secoli passati, i tentativi di accreditare con scritti e memorie, che spesso risultavano frutto di fantasia, le nobili origini di ricche famiglie. Così può essere stato anche con i Cortesi.

A questo proposito vogliamo ricordare che Bartolomeo Alfeo, umanista del Cinquecento ed autore di una storia di Ancona, metteva in relazione la fondazione di Falconara con la calata in Italia di Brenno, condottiero dei Galli, avvenuta alla fine del IV sec. a.C. Sempre secondo l'Alfeo dopo la sconfitta di Brenno da parte di Furio Camillo, tre fratelli Cortesi si sarebbero fermati nell'agro piceno ed uno di essi, il minore, avrebbe fatto edificare il castello di Falconara "molto ampio e bello, et nominandolo dal nome suo, chiamandosi M. Falcone".

In epoca più recente il racconto del Graziani è stato riesaminato dal Canaletti-Gaudenti, il quale afferma che l'origine germanica del capostipite dei Cortesi non deve meravigliare, in quanto non erano così rari i casi in cui popoli germanici fossero alleati dei Bizantini. Gli stessi Goti superstiti dopo la disfatta subita nel 552 erano rimasti alle dipendenze dell'impero di Bisanzio come soldati mercenari.

Secondo il Canaletti-Gaudenti è quindi probabile che uno dei Cortesi abbia avuto in premio alcune terre nelle pertinenze occidentali e meridionali della città di Ancona, occupando, in posizione collinosa e geograficamente importante, un'antica villa romana o un preesistente fortilizio, oppure semplicemente un vasto territorio che ha poi, nei punti più strategici, presidiato di torri. I presidi, poi, dovrebbero aver dato origine ai castelli di Falconara, di Varano e, in seguito, a quello di Sirolo.

Il Canaletti-Gaudenti fa anche l'ipotesi che il nome dei Cortesi derivi proprio dalle curtes di cui entrarono in possesso.

L'intera questione è stata anni fa riesaminata dal Natalucci in un articolo apparso sulla "Rivista di Ancona".

Il Natalucci, pur ritenendo teoricamente accettabile l'ipotesi formulata dal Canaletti-Gaudenti, la confuta in alcune sue conclusioni e tenta di inserire la particolare vicenda di Falconara in maniera coerente ai convulsi avvenimenti che si susseguirono nel Piceno dopo le prime invasioni barbariche. Infatti, secondo il Natalucci, dopo la già ricordata sconfitta dei Goti, Ancona ed il suo territorio passarono sotto il dominio bizantino e il centro politico della Pentapoli, di cui la città faceva parte, divenne Ravenna. Con la successiva invasione dei Longobardi, nella seconda metà del secolo VI, gran parte del Piceno venne occupata e furono travolti i presidi e i fortilizi della nobiltà bizantina. Ai Longobardi, poi, nella seconda metà del secolo VIII, succedettero i Franchi provocando nuovi sconvolgimenti politico-territoriali.

Una tale situazione di continua e perdurante crisi delle istituzioni politiche ed amministrative aveva provocato un decadimento dei centri abitati e un generale abbandono delle attività produttive. Le popolazioni avevano cercato rifugio e protezione nelle istituzioni ecclesiastiche. Ciò aveva favorito, dal VII al IX secolo, la formazione, nelle terre della Pentapoli, di un vasto patrimonio fondario di proprietà dell'arcivescovo di Ravenna che, in contrasto con il pontefice, si considerava erede dell'Esarca bizantino e vantava diritti temporali non solo sulla Romagna, ma sulla stessa Pentapoli.

Quanto sopra risulta, secondo il Natalucci, da documenti reperibili presso l'Archivio arcivescovile di Ravenna; sembra poi che a Falconara, secondo una nota del Peruzzi, esistesse una chiesa dedicata a S. Apollinare, che lascia pensare alla reale presenza di beni ravennati nel Falconarese.

Contemporaneamente al patrimonio della chiesa ravennate, si era sviluppato quello non meno considerevole delle comunità monastiche, che si erano sparse a poco a poco, a partire dal VII secolo, lungo la vallata dell'Esino. Ci par sufficiente ricordare il monastero benedettino di S. Lorenzo in Castagnola, posto nella selva omonima a sud-ovest di Chiaravalle, lungo la via detta Anconitana e quello di S. Maria in Castagnola, che divenne successivamente l'abbazia cistercense di Chiaravalle. A proposito della selva di Castagnola, che si estendeva dal territorio di Jesi fin quasi al mare, ricordiamo che il nome, secondo recenti interpretazioni, deriva non dalla presenza in essa di castagni bensì di un particolare tipo di quercia le cui infruttescenze erano appunto chiamate "castagnole" ed erano usate, in tempi di carestia, anche per l'alimentazione umana.

Sempre secondo il Natalucci, la formazione di una casta feudale nelle terre della vecchia Pentapoli si compì proprio attraverso la dissoluzione delle proprietà dell'arcivescovo di Ravenna e delle comunità monastiche, prima attraverso regolari contratti enfiteutici a lunga scadenza e quindi attraverso l'occupazione permanente delle curtes, in cui sorsero, come abbiamo detto, tra i secoli XI e XIII, i castelli.

I Cortesi sarebbero quindi, secondo questa ipotesi, da considerarsi appartenenti a quella nobiltà rurale, i conti rurali appunto, che si afferma dopo i secoli drammatici delle invasioni, quando si assiste al risveglio della vita e delle attività civili. Alcuni studiosi li hanno identificati con quei signori del Conero che edificarono l'abbazia di S. Pietro, sul monte, e quella di S. Maria di Portonovo, ai suoi piedi.

Un'altra questione controversa riguarda l'origine del nome Falconara. Secondo il già citato Graziani, il nome deriverebbe dallo stemma gentilizio dei Cortesi mentre secondo altre interpretazioni, che sembrano più probabili, il nome viene posto in relazione con l'esercizio della caccia con il falcone, molto diffuso nel Medioevo: a sostegno di quest'ultima ipotesi ricordiamo che in alcune antiche carte geografiche il luogo è denominato "Lo Falconaro".

Un anno fondamentale per la storia di Falconara è il 1225 quando, sempre secondo il racconto del Graziani, essendo pontefice Onorio II e imperatore Federico II, i conti Cortesi, Gentile, Pietro, Rinaldo, Ugolino, Guido, Vinciguerra suo figlio e Matteo suo nipote "spontaneamente, di loro libera volontà" si diedero con i loro castelli di Falconara, Varano e Sirolo in protezione del comune di Ancona.

I conti Cortesi ebbero la cittadinanza anconitana e furono aggregati "al pubblico consiglio e nobiltà di Ancona"; ebbero inoltre gli "onori, prerogative, privilegi, esentioni ed officii" che gli altri nobili cittadini originari godevano nella città; giurarono sottomissione e fedeltà ad Ancona che, a sua volta, promise di difenderli. Di questa aggregazione e della relativa convenzione parlano, tra gli altri, il Ferretti, il Saracini, l'Albertini, il Leoni, il Peruzzi.

In altre opere di storici anconitani si cita Falconara in riferimento agli avvenimenti accaduti verso la metà del secolo XIV, nel periodo in cui la Chiesa aveva quasi completamente perduto il controllo dei suoi possedimenti. I territori della Marca erano soggetti alle incursioni delle compagnie di ventura; tra esse era particolarmente famosa per la sua ferocia la Gran Compagnia di fra' Moriale, che nel 1353 mise a sacco molte città e castelli, tra cui Falconara che si arrese solo a patto che fossero risparmiate le persone, come è riferito nella cronaca di Matteo e Filippo Villani: "... e presono la Falconara a patti, salve le persone".

Si ritrova poi il nome di Falconara nella Descriptio Marchiae Anconitanae che risale al 1356, al tempo del cardinale Egidio Albornoz, la cui opera di restaurazione dello Stato della Chiesa pose le premesse per il ritorno del papa a Roma da Avignone. Nella Descriptio, Falconara, Barcaglione e Fiumesino sono nominati tra i "castra" che la "Civitas Anconitana habet sub se".

In seguito all'annessione ad Ancona, Falconara divenne una delle castella del contado, pur mantenendo una limitata autonomia amministrativa. Nei documenti e nei sigilli apparirà la dicitura "Comunitas Castri Falconarii", Comunità del Castello di Falconara, dove con il termine Castello si designa non solo il singolo edificio ma, come già accennato, l'intero nucleo abitato sviluppatosi intorno ad esso.

BARCAGLIONE

Sul punto più elevato del territorio comunale, a 204 metri sul livello del mare, è possibile anche oggi osservare, sia pure a fatica, alcuni ruderi che potrebbero essere attribuiti all'antica rocca o torre di Barcaglione. Le notizie sono molto scarse: la rocca risulta, dalla già citata Descriptio Marchiae, appartenere ad Ancona intorno al 1356.

Nel 1373 si dette al conte Lucio, tedesco, capitano generale della lega contro la Chiesa, che si apprestava ad attaccare Ancona. Secondo Oddo di Biagio, le "persone fonno poste in preda, et le robbe ad saccomanno", nonostante la resa. Partito il conte Lucio, il comune di Ancona fece abbattere, per punizione, la rocca ed il materiale venne usato per la riparazione delle mura di Ancona e, forse, anche del castello di Falconara.

ROCCA PRIORA

Quella che oggi conosciamo con il nome di Rocca Priora è nota fin dai primi secoli dopo il Mille come Rocca di Fiumesino. Lo storico Baldassini mette in relazione le sue origini con la nascita di Federico II di Svevia, avvenuta a Jesi il 26 dicembre 1194. Secondo tale fonte la città, in memoria del fausto evento, avrebbe fatto innalzare la Rocca alla foce del fiume Esino, sulla riva sinistra, per difendere i propri confini dagli attacchi di Ancona.

Secondo il Saracini gli Anconitani, ben consapevoli dell'importanza della Rocca, l'avrebbero acquistata durante il pontificato di Innocenzo III (1198-1216).

Queste notizie consentono di intravedere il successivo svolgimento delle vicende storiche della Rocca, imperniate principalmente sulle guerre tra le città di Ancona e di Jesi, protrattesi per secoli e miranti al suo possesso, che avrebbe garantito a Jesi lo sbocco verso il mare e ad Ancona il controllo delle vie di accesso da nord e da nord-ovest e del mare antistante.

Sulle vicende della Rocca, in relazione alla storia di Ancona, Daniela Baldoni ha pubblicato un'interessante monografia e ad essa rimandiamo per ulteriori approfondimenti.

È sufficiente qui ricordare che la Rocca, come indicato in precedenza, intorno al 1356 risulta elencata tra i castelli dominati dalla città di Ancona. Nel 1382 ne prese possesso Luigi d'Angiò con il suo esercito che il cronista anconitano Oddo di Biagio definisce "famelico et sitibundo". Dieci anni dopo il Consiglio degli Anziani di Ancona decide di far riparare e fortificare la Rocca, deliberando successivamente la nomina del nobile Balligano di Filippuzio dei Balligani a castellano.

Nella Rocca, siamo nel 1446, fu stipulato l'atto di armistizio tra il cardinale Scarampo e la città di Ancona.

Dopo alterne vicende dovute al riaccendersi delle questioni territoriali tra Ancona e Jesi, un intervento del pontefice Leone X assegnò definitivamente, nel 1516, la Rocca al comune di Ancona, che intraprese un'importante opera di bonifica delle terre che si estendevano intorno ad essa e che a causa delle dispute ed anche delle frequenti piene del fiume Esino, erano rimaste improduttive. Le terre, come riferisce il Peruzzi, furono divise tra i Consiglieri che dovevano versare al Comune, ogni anno, "una coppa di frumento per ogni soma di seminato".

Quando nel 1547 venne ricostituito ad Ancona il Monte di Pietà, il Comune stabilì che le rendite dei terreni della Rocca fossero devolute ad esclusivo beneficio del Monte stesso. In seguito, verso la fine del XVI secolo, il pontefice Sisto V dispose che i profitti ricavati dai terreni fossero destinati, per quattro anni, alla costruzione del Monastero di S. Palazia.

Nel Seicento la Rocca svolse un ruolo determinante nella difesa di Ancona e divenne sede di una guarnigione militare con compiti di vigilanza contro gli attacchi di Venezia e dei pirati turchi.

Nella seconda metà del secolo XVIII il Comune di Ancona, nel tentativo di favorire la ripresa economica del territorio, cedette in affitto, mediante asta pubblica, la Rocca e le terre di Fiumesino. La concessione enfiteutica viene assegnata a Francesco Trionfi (1706-1772), ricco mercante di Ancona, titolare della maggiore casa di commercio della Marca e cointeressato a varie imprese industriali, società di assicurazioni e privative.

Il contratto, firmato nel 1755 e registrato l'anno successivo, prevede che l'enfiteusi sia perpetua e trasmissibile, che vi sia diritto all'uso della Rocca, all'istituzione di una fiera franca di tre giorni e che il canone annuo sia di 2.105 scudi.

Il Trionfi investe cifre cospicue in piantagioni, restauri di fabbricati, acquisto di bestiame, sistemazione delle acque, tanto che, all'atto dell'apertura del suo testamento i periti conteranno 104 bovini grossi e 134 piccoli, 8.800 alberi diversi e 27.400 piante di vite. La stessa Rocca, che prende il nome di Rocca Priora, subisce profonde modificazioni con la costruzione del portale d'ingresso, della cappella e di locali per uso abitativo: l'antica fortezza medievale perde così il suo originario carattere militare per assumere la funzione di villa padronale al centro della vasta tenuta agricola.

Nel 1757 Francesco Trionfi, precedentemente patrizio di Ancona, riceve dal papa Benedetto XIV l'investitura sul fondo posseduto con il titolo di marchese di Rocca Priora, trasmissibile agli eredi in linea maschile. Dopo il raggiungimento del successo economico, il Trionfi entra così a pieno diritto nella nobiltà anconitana, con il riconoscimento dei titoli spettanti ai propri avi, anche se sussiste qualche perplessità sul modo in cui erano stati raccolti alcuni remoti attestati araldici.

Alla morte di Trionfi, come già accennato, il patrimonio era talmente elevato che un curioso aneddoto, appartenente alla tradizione familiare, racconta che il figlio esclamasse: "Come farò a spendere tutto questo denaro?".

Passata prima al figlio Luigi e poi al secondogenito Bonizio, l'intera proprietà venne acquisita nel 1826 dalla Camera Apostolica per 56.000 scudi a causa dell'impossibilità, per Bonizio Trionfi, di pagare i canoni e le tasse arretrate richieste dal Governo Pontificio.

Come ogni Rocca che si rispetti, anche qui un famoso personaggio ha trascorso una notte: si tratta di Gioacchino Murat che vi soggiornò il 29 aprile 1815, poco prima che si concludesse con la disfatta, a Tolentino, la sua utopistica impresa di combattere per l'unità e l'indipendenza d'Italia.

Va poi segnalato che proprio nella Rocca, e precisamente nella casa juxta horologium, nacque Pasquale Andreoli, aeronauta e pioniere del volo, noto soprattutto per aver raggiunto nel 1808, con il suo pallone aerostatico, l'altitudine di circa 8.000 metri. Una recente ricerca, svolta presso l'Archivio parrocchiale di Falconara Alta, ci ha consentito di accertare la data di nascita dell'Andreoli, riportata in modo non corretto in alcune pubblicazioni. Dal "Libro VII" dei battesimi, relativo agli anni 1735-1771, si rileva che Giuseppe Maria Pasquale Andreoli nacque il 22 novembre 1771 da Marco, fattore dei Trionfi, e da Maria Moracci e che venne battezzato il 24 successivo nella chiesa di S. Maria delle Grazie di Falconara.

CASTELFERRETTI

L'edificazione del castello, e la stessa storia del paese, sono strettamente legate alle vicende della famiglia Ferretti, che ha posseduto questo territorio dai primi del Duecento fino a tutto il Settecento, esercitandovi i diritti feudali dal 1397.

Sei secoli fa, nel 1384, Francesco Ferretti, discendente da uomini d'arme e condottieri originari della Germania venuti in Italia nel primo Duecento, chiede ed ottiene dal vicario generale della Marca anconitana Andrea Bontempi di poter trasformare un'antica torre di guardia, posseduta nella piana de' Ronchi, tra Falconara e Chiaravalle, in un luogo fortificato capace di contenere armati, vettovaglie e bestiame.

È il primo atto con cui si dà l'avvio all'edificazione di un munito castello a custodia delle proprietà che i Ferretti possiedono tutt'intorno creando insieme una buona piazzaforte a completamento del sistema difensivo del territorio anconetano. All'incirca negli stessi anni vengono ristrutturate quasi tutte le altre rocche dislocate lungo i confini anconetani da Bolignano, al Cassero, a Fiumesino, onde poter meglio difendere la città dalle scorrerie delle armate angioine impegnate nella guerra tra i fedeli del papa Urbano VI e i seguaci dell'antipapa avignonese Clemente VII.

Una controversia scaturita sì dalla faziosità dei cardinali francesi contrastanti il potere del collegio cardinalizio dominato dagli italiani, ma motivata pure da un malcelato interesse del partito di Luigi d'Angiò di conquistare e sottomettere parte delle terre dello Stato della Chiesa.

La costruzione del castello è completata nel giro di pochi anni tanto che nel 1397 Francesco Ferretti viene nominato conte di Castel Francesco da papa Bonifacio IX. La contea, su cui i Ferretti godono delle stesse immunità e dei privilegi concessi ai nobili palatini, si estende dal fiume Esino ai confini con il territorio di Ancona a quelli con le proprietà dei benedettini cistercensi di S. Maria in Castagnola di Chiaravalle, in una pianura fertile e ricca di acque occupante in parte l'antico alveo dell'Esino ormai asciutto per la deviazione subita dal fiume dopo le ripetute frane delle rupi di Jesi.

Il riconoscimento del feudo ai Ferretti, famiglia di spicco nel governo di Ancona, dà luogo ad una disputa tra Anconetani e Jesini per il possesso delle terre al di qua e al di là dell'Esino che nel Quattrocento sfocia in duri scontri tra gli eserciti delle due città. Della questione territoriale, chiusasi solo nei primi decenni del XVI secolo, restano parecchi documenti, anche cartografici, che ben introducono nell'ambiente in cui vivono ed operano gli abitanti di Castel Francesco nei primi anni di sviluppo del centro abitato.

Il castello offre una sicura abitazione agli agricoltori che lavorano nei campi circostanti e agli artigiani dediti ad attività di sostegno all'economia agraria. Secondo la descrizione resa da uno storico appartenente alla stessa famiglia Ferretti il fortilizio ha una forma quadrata con profonde mura a controscarpa, "recinto da ampla e capace fossa" alimentata attraverso "sotterranei condotti" da una vena tanto abbondante da colmare pure una cisterna scavata nella piazza interna.

Lasciata in piedi l'antica torre di guardia, vengono elevate altre tre torri "di grossissime mura, e di ben considerabil altezza" e tra una torre e l'altra va un "corridore" merlato. Un'altra torre domina l'ingresso, a cui si accede per un ponte levatoio, che si apre sul cortile interno dove c'è la chiesa, col forno e una gran quantità di fosse capaci di contenere e conservare il grano frutto delle annuali raccolte.

L'intera tenuta dei Ferretti "paludosa e selvata" fin verso la metà del Quattrocento è bonificata e messa a coltura dall'infaticabile opera di gruppi di albanesi stabilitisi in Castel Francesco, così come un po' per tutte le Marche, dopo un esodo dalle località d'origine, protrattosi per parecchi decenni, sotto la spinta delle incursioni turche nella penisola balcanica, e la pesante crisi economica conseguente al continuo stato di guerra. Al di qua dell'Adriatico, lungo tutta la fascia costiera dalla Romagna alle Puglie, è facile trovare ove insediarsi per lo spopolamento di molti centri seguito alla tremenda "peste nera", la stessa ricordata nelle novelle del Boccaccio, che nel Trecento ha mietuto gran numero di vittime in quasi tutta l'Europa.

Mancando il lavoro dell'uomo la selva presto ha prevalso nelle terre già un tempo dissodate e per la ripresa occorre innanzitutto procedere ai disboscamenti per cui è necessario il lavoro di molte braccia rendendo utile l'apporto degli immigrati albanesi.

Anche in Castel Francesco molto si deve al duro lavoro degli albanesi costretti a vivere nei primi tempi del loro soggiorno in "rozze capanne" e ammessi poi in avanzati anni ad alloggiare nel castello. A loro sono affidate le attività più umili. Molti sono i muratori e manovali come Lione Scanna e Tanusio Balasio, entrambi "albanesi", che nel 1584 sono incaricati dal conte Vincenzo Ferretti di restaurare la chiesa di S. Maria della Misericordia, sita poco fuori il paese, luogo di sepoltura degli abitanti di Castel Francesco.

La chiesa della Misericordia è, con l'iconografia degli affreschi che adornano le pareti di fondo e laterali, una delle migliori testimonianze delle decimazioni prodotte dalle pesti trecentesche. La fede e la devozione dei superstiti hanno inteso ricordare il triste avvenimento rappresentando lo scampato pericolo e la salvezza dovuti all'accogliente abbraccio della Madonna che sotto il suo ampio mantello protegge e difende le genti inermi di fronte al terribile morbo. La gratitudine degli abitanti di Castel Francesco e dintorni è espressa pure da una confermata devozione a Santi già oggetto di assiduo culto nella zona come S. Pietro e S. Paolo, S. Bernardino, S. Giacomo della Marca, S. Giovanni e S. Sebastiano. Il complesso ecclesiale è dunque un importante monumento d'arte per le pitture murarie degli interni, attribuibili alla scuola umbro-marchigiana, uniche in tutto l'Anconetano, e nello stesso tempo è un significativo documento di un'epoca storica che va preservato e fatto meglio conoscere.

Il feudo dei Ferretti ha una rapida crescita demografica e già nel Cinquecento Castel Francesco è uno dei più vivaci centri della bassa valle dell'Esino, cosicché a metà del secolo, secondo lo storico Francesco Ferretti autore nel 1685 della Pietra del Paragone, è abitato da 65 famiglie sistemate in 23 appartamenti all'interno del castello e in altre piccole abitazioni raccolte in un borgo ed in alcune ville nella campagna. In totale si contano quasi 500 abitanti distribuiti in un territorio della superficie di 650 some, più o meno 1300 ettari. L'intera popolazione vive consumando quanto ricava dalla coltivazione dei campi che con abbondanza producono vino e grano più che sufficiente alle necessità dell'annata. Tanto infatti è il frumento raccolto che circa 500 some l'anno sono vendute sul mercato di Ancona. Così pure al mercato della vicina città è destinato il sovrappiù annuo di 50 some di orzo. I ricavi sono utilizzati per acquistare olio, lino e quant'altro serve alla vita della comunità. Il bestiame conta 60 bovini, 400 pecore, 110 porci, 35 paia di buoi da lavoro e 30 animali da soma.

La relativa tranquillità che s'instaura per tutto il Cinquecento fa sì che Castel Francesco continui a svilupparsi e a raggiungere sul finire del Seicento una popolazione di 610 persone raccolte in 121 famiglie. A testimonianza del florido periodo si ricordano le opere promosse dal capitano Francesco Ferretti consistenti in ampliamenti dell'intera rocca, nella costruzione di un "casino" nel borgo con logge e giardino e di una chiesa dedicata a S. Stefano. È poi più o meno nello stesso periodo che i Ferretti completano l'edificazione della villa di Monte Domini, un superbo esempio di edilizia signorile cinquecentesca ad uso di abitazione estiva. C'è ancora da aggiungere che in relazione allo sviluppo dell'abitato, che nel primo Seicento assume la definitiva denominazione di Castel Ferretti, viene decisa, nel 1629, la fabbrica di una nuova chiesa all'interno del castello, in luogo dell'antica ormai inadeguata ad ospitare i fedeli nel corso delle varie cerimonie liturgiche. La chiesa, che mantiene il titolo di S. Andrea, è sede di un parroco nominato dagli stessi conti Ferretti. La canonica di due sole stanze è anch'essa all'interno del castello.

Fra Seicento e Settecento la tranquilla vita paesana, scandita secondo i ritmi naturali, non conosce grandi turbamenti risentendo poco dei problemi assillanti alcuni esponenti della famiglia Ferretti che si trovano coinvolti in due impegnative liti con la comunità di Ancona. La questione, insorta negli ultimi decenni del '600, riguarda soprattutto la pretesa di Ancona di comprendere anche Castel Ferretti nel numero dei castelli soggetti alla propria giurisdizione e perciò tenuti al pagamento di gabelle e tributi alla Dominante. Già una prima volta la lite si risolve a favore dei Ferretti i quali possono ampiamente dimostrare i loro diritti feudali sanzionati da parecchie bolle pontificie emanate tra XV e XVI secolo, da ultima quella di Clemente VIII del marzo 1593. Dopo quasi mezzo secolo la disputa si riaccende nel 1760, ma ancora una volta i Ferretti hanno la meglio ed è a loro confermato ogni diritto sul castello e suo territorio da ritenersi luogo baronale.

Il governo dei Ferretti seguita così a reggere le sorti del paese fino agli anni della prima invasione bonapartista, quando nel triennio 1797-99 i Ferretti son chiamati diverse volte a contribuire alle spese per lo stazionamento dell'esercito d'occupazione. Non avendo sempre sufficiente denaro a disposizione la famiglia è costretta a porre ipoteche sui beni di Castel Ferretti. Beni che negli anni della prima restaurazione, ristabilito il sovrano pontefice, i Ferretti riscattano per la maggior parte. Sono poi i decreti consalviani del 1817 a privare anche i Ferretti, e questa volta definitivamente, di ogni diritto giurisdizionale sulla loro contea. Dopo quasi cinque secoli ha così termine la signoria dei Ferretti e di lì a qualche decennio si estingue anche il ramo principale dell'illustre famiglia.

(Schede di Giuseppe Campana e Gilberto Piccinini)